Mobbing e demansionamento: differenze e modalità di prova delle due fattispecie

Propone ricorso un agente delle forze dell’ordine che mira a vedersi riconosciuto un risarcimento per mobbing e demansionamento. I fatti: dopo aver rifiutato l’incarico di “Capo Deposito Carburanti e Lubrificanti di p.c.”, mansione dal ricorrente mai svolta e per la quale egli non possedeva i necessari titoli, sarebbe stato oggetto di una condotta punitiva da parte dei superiori. Questa si sarebbe concretizzata, sulle prime, nell’azzeramento delle ore di straordinario, proseguendo poi nell’allontanamento dall’ufficio e da qualsiasi lavoro burocratico.

L’agente chiede quindi risarcimento dei danni subiti a causa della condotta di cui sopra e della dequalificazione professionale.

Il parere dei giudici: mobbing e demansionamento devono essere adeguatamente provati

I giudici, nel procedere al respingimento del ricorso, ricordano “la differenza tra le due situazioni: il mobbing, diversamente dall’altra figura, è caratterizzato dall’esistenza di un intento persecutorio da parte del datore di lavoro, intento che deve formare oggetto di dimostrazione da parte di chi rivendica il danno subìto, fermo restando che il demansionamento, qualora provochi danni morali e professionali, dà diritto al risarcimento indipendentemente dalla ulteriore sussistenza del mobbing”.

In ogni caso i fatti devono essere adeguatamente provati. Per quanto riguarda il demansionamento non è sufficiente richiamarsi a categorie generali, come la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, o il suo tipo e natura. Lo stesso a dirsi per il mobbing, che si identifica in una condotta del datore di lavoro “complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo dipendente, tale da provocare un effetto lesivo della sua salute psicofisica”.

Riguardo al danno da dequalificazione professionale, i giudici ricordano che l’obbligo del datore di lavoro di impiegare il dipendente a mansioni rispondenti alla categoria ha natura contrattuale. Tuttavia il reato va esposto in tutti i suoi elementi essenziali: la vittima deve quindi evidenziare qualche concreto elemento per far sì che il giudice amministrativo possa verificare la sussistenza di una condotta illecita. 

Si deve aggiungere che il lavoratore deve dare prova, oltre dell’effettivo demansionamento o del mobbing, anche del danno non patrimoniale subito, non essendo sufficiente la mera potenzialità lesiva della condotta del datore di lavoro.

Potrebbe interessarti anche: Mobbing: perché si configuri il reato è necessario l’intento persecutorio del datore di lavoro

Consulta la Sentenza n. 84 del 1.2.2017, TAR Calabria

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *