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Silenzio inadempimento della PA
Silenzio della PA a fronte dellÂ’istanza di revisione del Regolamento unificato per la gestione su area sovra-comunale degli autoservizi pubblici non di linea con autovettura (taxi e a noleggio con conducente) - Consiglio di Stato, 9/3/2015, n. 1182

1. Perché possa sussistere silenzio inadempimento dell'amministrazione non è sufficiente che questa, compulsata da un privato che presenta una istanza, non concluda il procedimento amministrativo entro il termine astrattamente previsto per il procedimento del genere evocato con l'istanza, ma è anche necessario che essa contravvenga ad un preciso obbligo di provvedere sulla istanza del privato, che sussiste non solo nei casi previsti dalla legge, ma anche nelle ipotesi che discendono da principi generali, ovvero dalla peculiarità della fattispecie, e, ai sensi dell'art. 2 della legge n. 241 del 1990, allorché ragioni di giustizia ovvero rapporti esistenti tra amministrazioni ed amministrati impongano l'adozione di un provvedimento, soprattutto al fine di consentire all'interessato di adire la giurisdizione per la tutela delle proprie ragioni (Cons. Stato, sez. III, 14.11.2014, n. 5601). Nel caso concreto, che vede l’amministrazione silente a fronte dell’istanza di revisione del Regolamento unificato per la gestione su area sovra-comunale degli autoservizi pubblici non di linea con autovettura (taxi e a noleggio con conducente), convergenti elementi consentono di reputare non sussistenti detti requisiti. Non è stata infatti dimostrata l’esistenza di alcuna norma di legge o di regolamento o qualsiasi atto amministrativo che imponesse al comune di pronunciarsi sulle richieste di immediata revisione, nelle competenti sedi politiche, del Regolamento unificato per la gestione sovra comunale degli autoservizi pubblici non di linea con autovettura e di adozione di una circolare interpretativa e di una conseguente ordinanza nei confronti delle associazioni di taxisti, contenente specifiche previsioni. L'istituto sotteso all’art. 2 della legge n. 241 del 1990 (silenzio-inadempimento) non può quindi trovare applicazione allorquando, come nel caso di specie, si sia in presenza di atti a contenuto generale rimessi alla scelta discrezionale dell'amministrazione e rispetto alla quale non è configurabile un interesse qualificato del privato tale da poter rivendicare l'esistenza di un ‘obbligo’ per l'ente di procedere all'adozione di atti a contenuto regolamentare (in caso simile: cfr Cons. Stato, sez. IV, 5.3.2013, n. 1349). Neppure è stata dimostrata la sussistenza di ragioni di giustizia, ovvero di rapporti esistenti tra il Comune e gli amministrati che imponessero nella particolare fattispecie l'adozione di un provvedimento su detta istanza.

2. Nei  giudizi proposti avverso il silenzio della pubblica amministrazione è di norma precluso al giudice amministrativo di accertare la fondatezza della pretesa fatta valere dall’istante, sostituendosi in tal modo all’amministrazione e esercitando una giurisdizione di merito di cui egli non è titolare in materia; può infatti dichiarare l’accoglibilità dell’istanza solo nei casi di manifesta fondatezza, quando cioè sono richiesti provvedimenti amministrativi dovuti o vincolati per i quali non c'è da compiere alcuna scelta discrezionale che potrebbe sfociare in diverse soluzioni (Cons. Stato, sez. V, 4.8.2014, n. 4143).

3. Anche se l’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990 rafforza la tutela risarcitoria del privato nei confronti dei ritardi delle pubbliche amministrazioni, stabilendo che esse sono tenute al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, la domanda deve essere comunque ricondotta nell’alveo dell’art. 2043 c.c., per l’identificazione degli elementi costitutivi della responsabilità; di conseguenza l’ingiustizia e la sussistenza stessa del danno non possono, in linea di principio, presumersi iuris tantum, in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo o al silenzio nell’adozione del provvedimento amministrativo, ma il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda e, in particolare, sia dei presupposti di carattere oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale), sia di quello di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante).

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